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Il sorriso di un sogno




Eravamo nell’aprile dell’anno 1987 e io volevo a tutti i costi raggiungere la vetta dell’Everest, il mio sogno più grande, un sogno in parte legato all’infanzia, un sogno che in molti definivano il mio chiodo fisso; e di chiodi, potete star certi, ne ero ben attrezzato. Come anche di moschettoni, staffe e imbracatura; senza contare il mio adorato e inseparabile zaino completo di reticella multiuso e tasche di varie misure, dove avevo infilato - si fa per dire - ogni cosa necessaria e indispensabile.


Mi chiamo Rayan Kirst e il mio patrimonio genetico ha fatto sì che avessi non solo una pelle marmorea e un corpo molto resistente al freddo, ma anche un bel paio di occhi grigi e una capigliatura folta, liscia e bionda.


Scalare le montagne è sempre stata una delle mie passioni e forse l’unica, se si tralascia la passione per il pianoforte e per la fotografia in genere.


Comunque; oramai erano già tre mesi che mi trovavo sul versante nord dell’Everest e devo dire che mi sono capitate un sacco di cose meravigliose, non dico incredibili perché sarebbe come dire che ho visto il fantomatico Yeti, l’uomo delle nevi. Però, in molti casi, ho avuto la netta sensazione di aver già visto quei luoghi. La cosa mi risultava infondata, giacché sull’Everest non ero mai salito prima di allora. Ma paesaggi, rocce, punte aguzze, addirittura qualche albero più giù verso la vallata; sembravano far parte della mia vita quotidiana. Sarà che abituato come sono alle scalate, ho sempre avuto modo di vedere panorami molto simili tra loro; eppure, non mi era ancora capitato e di solito ricordo alla perfezione ogni montagna, ogni suo antro segreto, ogni gioco di luce e ombra che anfratti e neve collaborano a creare. Insomma, che dire?, la fatica e le intemperie mozzano il fiato e nonché l’aria si fa più rarefatta, ma non per questo resto senza respiro.


Quando mi volto e vedo l’immenso, l’infinito davanti ai miei occhi; la neve carezzata dai tiepidi raggi solari, le vette che si innalzano contro l’orizzonte.


Cosa posso chiedere di più? Il silenzio che mi invade l’anima, e se chiudo gli occhi e respiro appena, posso sentire il fresco e l’ululato del vento che percorre i meandri cavernosi delle rocce.


Ero vicino alla vetta più di quanto avessi mai potuto sperare, e ritenni necessario almeno un altro giorno prima che lo scopo della mia vita venisse compiuto.


Trovai una parete di roccia piuttosto liscia, conficcai il dado e poi la staffa, rendendomi conto che più avanti sulla mia destra, stava uno spazio piuttosto largo ove poter fissare la tenda per la notte. In effetti il tramonto si avvicinava rapidamente, perciò decisi che per quel giorno poteva anche bastare.


Raggiunsi il punto di appoggio nel più breve tempo possibile e mi affrettai a montare la tenda. Cenai con gallette e fagioli e dormii per tutta la notte di un sonno profondo.

All’alba mi svegliò un grido agghiacciante.


Mi alzai di soprassalto e l’intenzione era quella di uscire dalla tenda, ma non feci in tempo a compiere il gesto che subito mi resi conto che c’era qualcosa che non quadrava.

Questa situazione l’ho già vissuta”, mi dissi.


Ancora udivo il grido propagarsi in un’eco infinita tra versanti, vette e valli; ma era come se il grido non provenisse da fuori, non realmente almeno; era come se fosse dentro di me, come qualcosa che potessi udire soltanto io, eppure la sensazione di eco restava. Avevo i battiti del cuore appesantiti dallo spavento e dalla sorpresa, e credo avessi iniziato a sudare freddo.


Stai calmo”, mi ripetei all’infinito. Ma nella mia mente balzavano immagini di vette innevate da ghiacciai perenni soffusi di una deliziosa luce rosata. La luce dell’alba.


Mi feci coraggio e abbassai lentamente la zip della tenda e vidi qualcosa che non avrei mai voluto vedere: le vette innevate rischiarate dall’alba prossima all’arrivo. Com’era possibile? Avevo davvero, già vissuto tutto questo? No. Impossibile! Non avevo mai tentato la scalata del monte più alto del mondo. Allora come si spiegava?


Ricordavo alla perfezione il mio sussulto; e il grido che avevo udito mi era così familiare; la mia mano che si allungava nel tentativo di aprire la zip; e cosa ancora più incredibile: il panorama che avevo semplicemente previsto. No, no. Scossi la testa in un moto di sconforto e di incredulità.


Probabilmente avevo fatto strani sogni quella notte e il grido era venuto da lì, non era stato reale. Dopotutto, il freddo e l’aria rarefatta potevano giocare brutti scherzi. Cercai di ricompormi e di darmi un contegno. Dovevo smetterla con certe fantasie, il mio sogno di arrivare in cima alla vetta era ormai alle porte, non potevo certo permettermi di perder tempo con simili quisquilie.


Ecco, dunque, che mi ripresi in fretta e, chiusa e riposta la tenda nello zaino, ripresi la scalata verso la cima. Per tutta la mattina ogni pietra, sasso, ammasso di neve o ghiaccio, mi riportavano alla memoria che quell’esperienza l’avevo già vissuta in una maniera o in un’altra. Erano avvisaglie? Chissà.


Sorrisi tra me scuotendo la testa e nel tardo pomeriggio, con un ultimo sforzo, fui sulla vetta.

Inspirai la brezza, il freddo non mi scuoteva più, il vento non poteva nulla di fronte all’infinito. Ce l’avevo fatta e nessuna meraviglia era paragonabile alla moltitudine di sensazioni che provavo. Intravidi il sole al tramonto, i suoi raggi che perforavano le stalattiti creando forme armoniose sulla neve ora candida ora rossastra.


All’improvviso ebbi su sussulto così violento che per poco credetti di perdere i sensi: per la prima volta, dall’inizio della scalata, non ebbi sensazione di “vissuto” e tutto era meravigliosamente nuovo ai miei occhi.


Sorrisi e aggrottai le sopracciglia, quando notai un grande masso verticale parzialmente ricoperto di ghiaccio.


Mi avvicinai e scostai con la mano la neve.


1959 - 1986.


Due date scolpite nella dura pietra sulla vetta dell’Everest.


Cosa potevano mai significare? Con entrambe le mani tolsi furiosamente tutta la neve che restava e tremando lessi quest’incisione:


Con il sogno mai realizzato di raggiungere la vetta, qui giace Rayan Kirst,

il nostro amato Ray.

L’Everest non dimenticherà mai il tuo sorriso e il tuo amore per lui”.


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