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Sulle tracce di Oriana #1


È da un po' che sto preparando questo articolo perché gli argomenti che voglio trattare sono molti e non sapevo da quale fosse giusto cominciare. Ma poi mi sono detta che se non avessi mai iniziato non sarei mai partita.

Quindi voglio affrontare con voi una questione che mi sta a cuore, ovvero il motivo per cui ho iniziato a scrivere, che poi è lo stesso per il quale ho iniziato a leggere senza mai più smettere.

Ho scoperto Oriana Fallaci quando avevo dodici anni e tra le mani mi capitò il suo libro Lettera a un bambino mai nato. Mia madre lo teneva in casa, neanche so se lo avesse mai letto tutto o solo sfogliato, non ci siamo mai confrontate e questo è stato un peccato.

Nonostante ciò questo libro è un piccolo cimelio dal quale non mi separerò mai. Mi ha aperto gli occhi e ha confermato cose che già sospettavo, che mi hanno aiutata a comprendere ciò che in fondo già sapevo.

Ma andiamo al punto.

Il libro racconta di una donna moderna, contemporanea - badate bene, è stato scritto negli anni '70 - una donna indipendente che lavora, che ha idee proprie, una propria vita e propri sogni e progetti da realizzare. Una donna come forse in quegli anni se ne vedevano poche, ma già iniziava una certa emancipazione femminile.

Una donna forte che improvvisamente si ritrova a fare i conti con la realtà, una realtà attraverso la quale capisce di aspettare un bambino. E d'un tratto viene catapultata nella paura più nera.

Una paura vertiginosa, quella del "caso che lo ha strappato al nulla per agganciarlo al suo ventre". Perché lei, donna della quale non conosciamo il nome, non teme niente. Neanche la morte. Neanche Dio, perché non crede in Dio. Ma teme il nulla. Il nulla assoluto. L'assenza totale di qualsiasi cosa. E quel nulla improvvisamente è diventato qualcosa, o meglio qualcuno, qualcuno che sta crescendo al suo interno, nel suo ventre.


E da qui iniziamo la mia storia.




Io il nulla non lo temo, forse solo un po’. Solo quando penso alla morte, a quello che sarà dopo, se sarà.

Ciò che invece mi spaventa di più è l'indifferenza. Perché l’indifferenza è una bestia infame, è qualcosa che c'è ma che finge di non esserci. È quello sguardo che ti scivola addosso senza toccarti, ti sfiora, te lo senti viscido sulla pelle e questo quando va bene. Negli altri casi neanche esiste quello sguardo. Né compassione né pena. Né curiosità né interesse. Il buio dentro due orbite cave. Un abisso dal quale non si esce, l'indifferenza. Una provocazione a senso unico. Non puoi combatterla l'indifferenza, non puoi gridarle contro, non puoi danneggiarla, scalfirla, graffiarla. È una guerra persa in partenza.

L'odio puoi combatterlo con l'odio, in alcuni casi anche con l'amore. Ma l'indifferenza no, quella non la combatti, la osservi, ci convivi, ti ci abitui.

Ed ecco un'altra cosa che mi terrorizza: l'abituarsi al peggio, l'abituarsi all'indifferenza, l'abituarsi a vivere in una condizione invece che in un'altra, l'abituarsi al male, alla disonestà, all'invidia, alla mediocrità.

Perché ci abituiamo alla mediocrità? Cosa ci ha resi così succubi da non ricercare un miglioramento, da non voler provare a sforzarsi per elevarsi, per vedere oltre, per andare oltre.

Mediocrità.

Altra cosa che temo enormemente.

E così siamo arrivati a tre. Sono tre le cose che mi terrorizzano. L'indifferenza. L'abitudine. La mediocrità.

Prese separatamente forse sembrano solo parole.

Messe insieme sono l'Inferno sulla Terra.




*segue nel prossimo numero*



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