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Eppure cadiamo felici, di Enrico Galiano. Fernweh e la nostalgia di luoghi mai visti.



Capelli rossi, occhi azzurri e lentiggini su naso e zigomi. Nonostante la bellezza della copertina a farmi decidere di leggere il libro è stato il titolo. L’impatto che ha avuto su di me questa frase: "Eppure cadiamo felici" è stato pressappoco come ricevere uno schiaffo in faccia, come sentire quella starna brezza che tira sempre più forte e che mi fa capire che quello lì, proprio quello, è il libro giusto. Mi sono sentita come “una busta di plastica trasportata dal vento” e mi ci sono sentita per tutta la lettura del romanzo. E anche dopo, quando l’ho finito. E anche adesso, mentre scrivo la recensione. Perché, vedete, io non ho letto nemmeno la trama di questo romanzo, è bastato quel titolo a farmi capire che questa storia non me la sarei mai scordata. A voi invece la scrivo, la trama, così che potete leggerla se vi va, anche se, vi avverto, non rende abbastanza.

"Sai perché mi scrivo sul braccio tutti i giorni quelle parole, "la felicità è una cosa che cade?" Per ricordarmi sempre che la maggior parte della bellezza del mondo se ne sta lì, nascosta lì: nelle cose che cadono, nelle cose che nessuno nota, nelle cose che tutti buttano via".


Il suo nome esprime allegria, invece agli occhi degli altri Gioia non potrebbe essere più diversa. A diciassette anni, a scuola si sente come un’estranea per i suoi compagni. Perché lei non è come loro. Non le interessano le mode, l’appartenere a un gruppo, le feste. Ma ha una passione speciale che la rende felice: collezionare parole intraducibili di tutte le lingue del mondo, come cwtch, che in gallese indica non un semplice abbraccio, ma un abbraccio affettuoso che diventa un luogo sicuro. Gioia non ne hai mai parlato con nessuno. Nessuno potrebbe capire. Fino a quando una notte, in fuga dall’ennesima lite dei genitori, incontra un ragazzo che dice di chiamarsi Lo. Nascosto dal cappuccio della felpa, gioca da solo a freccette in un bar chiuso. A mano a mano che i due chiacchierano, Gioia, per la prima volta, sente che qualcuno è in grado di comprendere il suo mondo. Per la prima volta non è sola. E quando i loro incontri diventano più attesi e intensi, l’amore scoppia senza preavviso. Senza che Gioia abbia il tempo di dare un nome a quella strana sensazione che prova. Ma la felicità a volte può durare un solo attimo. Lo scompare, e Gioia non sa dove cercarlo. Perché Lo nasconde un segreto. Un segreto che solamente lei può scoprire. Solamente Gioia può capire gli indizi che lui ha lasciato. E per seguirli deve imparare che il verbo amare è una parola che racchiude mille e mille significati diversi.

Nessuno lo sa, ma lei è una che quando alle elementari le chiedevano: "Cosa vuoi fare da grande?" rispondeva sempre nello stesso modo, e cioè: "felice qualcuno".

Gioia Spada è una che colleziona parole, di quelle intraducibili come fernweh che in tedesco significa: Avere nostalgia di posti lontani, anche se non li abbiamo mai visti. (Credo che fra le tante, sia quella che preferisco di più). Ecco, per descrivere questo romanzo me ne basterebbe trovare una che significhi al tempo stesso bello e che fa paura. Sì, perché un libro così fa paura. Non paura nel senso che ti succede come quando guardi un film horror, no, non quel genere di paura. Paura nel senso che è un libro che apre e mentre lo fa ti svuota dentro e ti riempie di nuovo. Ti dice che c’è qualcosa là fuori e che in fondo è meglio di quello che credevi. Ti dice che ci sei, e che ci sei ora, e che questa è l’unica certezza che hai. Ti dice di non aver paura degli altri, perché a volte fa più paura quello che siamo noi, dentro. Era da “Raccontami di un giorno perfetto” che non leggevo un libro così, e a dirla tutta un po’ forse si somigliano queste due storie, un po’ forse possono avere un lato di buio e uno di luce, entrambe. Ma passando a un lato più tecnico che morale, Enrico Galiano, professore di italiano che ha ideato la serie Cose da prof, scrive molto bene. Mi piace il suo modo diretto ma non troppo, quei giri di parole che sanno di ripetizione, senza essere pesanti. I dialoghi sono strutturati in modo da rispecchiare molto i giovani di oggi, in particolar modo proprio gli adolescenti, e nonostante tutto non sono volgari e nemmeno pesanti, ma spesso risultano ironici, divertenti. Enrico scrive così la storia di due ragazzi problematici: Gioia e Lo, entrambi adolescenti, entrambi soli, entrambi esclusi. Gioia Spada ha diciassette anni, una spruzzata di lentiggini su naso e zigomi, e grandi occhi azzurri che nascondono tutte le sue paure. Ha la passione per la fotografia, ma solitamente tende a fotografare tutti di spalle perché, dice, è lì che vedi davvero come sono le persone, spontanee e sincere. Per lei, sul viso, le persone portano sempre una maschera, ed è per questo che non ha intesa con nessuno dei ragazzi o delle ragazze che conosce. Ha un’amica, certo, si chiama Tonia ed è anche molto simpatica. Unico difetto è che non esiste. Perché lei, be’, è un’amica immaginaria. Mica poteva essere vera, una così. E poi, dall’altra parte c’è Lo. Misterioso, ironico, a volte scorbutico. É un tipo in gamba, Lo. Un tipo di cui ti fideresti già dal primo incontro. Eppure nasconde qualcosa, una cosa che forse, solo Gioia riuscirà a scoprire cos’è. Si incontreranno per caso fuori dall’entrata di un bar, la notte in cui lei decide di uscire di casa in tutta fretta, per fuggire al litigio dei suoi genitori. Impareranno a conoscersi e a capire molte cose l’uno dell’altra. A incuriosire Gioia è anche il barattolo di sassi che Lo porta sempre con sé. Loro sono i protagonisti della storia, ma un’altra figura per niente scontata che ho amato moltissimo è quella del professor Bove. Un tipo a posto, se per “a posto” intendiamo dire: “uno qualunque”. No, il professor Bove non è uno qualunque. Lui è il professore. Una storia molto dolce, triste, ma piena di luce. Sa tenerti incollata alle pagine, tanto che avevo timore di finirla troppo presto e dimenticare le cose importanti tra le righe. Ma è impossibile, una storia così non si dimentica.


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