Valentina Bellucci
1
TRISTAN
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Suona la sveglia. La spengo. Passano cinque minuti e suona di nuovo.
Devo andare a scuola ma non ne ho voglia, mi tiro le lenzuola fin sopra la testa e la lascio suonare. Ma dopo un po’ mi infastidisce e allora allungo il braccio fuori dal letto per spegnerla, poi mi giro dall’altra parte con la faccia rivolta verso il muro.
Adesso c’è silenzio. Un silenzio che mi pesa. Che mi pesa da tre anni. Quel genere di silenzio che quando lo ascolti diventa assordante, e vorresti soltanto che sparisse dalla tua testa e ti accorgi che urlare è l’unico modo. Ma non lo faccio, non urlo, me ne resto zitto, per paura che mia madre mi senta. L’ultima volta che è successo e lei mi ha sentito, le sedute con la psicologa sono aumentate.
Chiudo gli occhi, il vuoto, poi il nulla. Stringo le lenzuola tra i pugni come aspettandomi che cambi qualcosa, o che il dolore mi uccida, ma non succede niente. Mi sembra di riviverlo ancora, come se non fossero passati tre anni, come se il tempo si fosse fermato a quell’attimo, ma quando riapro gli occhi davanti a me vedo il solito muro bianco.
Alla fine decido che devo alzarmi se non voglio fare tardi alle lezioni.
Raggiungo la porta del bagno trascinando i piedi, la apro ed entro dentro. Nello specchio il mio riflesso ha la faccia di un ragazzo di sedici anni, ma quando osservo gli occhi spenti, le occhiaie e le rughe d’espressione sulla fronte, mi convinco che anche l’età stessa è soggettiva.
Mi passo una mano tra i capelli folti e lisci e penso che tutto sommato sia un disastro completo.
Quando finirà? Mi chiedo. Quando?
Penso che una fine non ci sia, penso che quando vivi la morte quella ti resta dentro per sempre. Penso che possano trascorrere tutti i giorni del mondo, e comunque sia tu resti lì, accanto a quel ricordo, perché senza di esso senti che non potresti vivere e ci resti aggrappato per non lasciartelo sfuggire, come se fosse un’ancora di salvezza, e invece senza saperlo è proprio a causa di quello che smetti di essere vivo.
Ma anche se lo sapessi la cosa non mi sfiorerebbe minimamente. Non m’importa. Ogni giorno è uguale all’altro, niente posso aspettarmi che accada, tutto fila sempre allo stesso modo, come se il mio orologio interiore avesse smesso di battere, come se la morte, dopo che è arrivata, avesse deciso di non andarsene più via.
La vedo bene, la morte. Negli sguardi della gente alla fermata dell’autobus, mentre salgo i gradini e guardo in faccia l’autista che ha l’espressione incazzata, mentre mi siedo a un posto vuoto e lascio che l’autobus mi porti a scuola, lì dove ci sono altri sguardi con la morte dentro. La vedo ovunque. Perché lei è sempre lì, presente, in ogni istante, anche se nessuno lo sa. C****, nessuno lo sa.
I miei genitori pensano che tutto sommato stia bene, riesco a fingere con loro, come fingo anche con i professori e con la psicologa della scuola ovviamente, la stessa che mi hanno accollato tre anni fa, dopo quel giorno. Quella stessa psicologa che ha detto a mia madre “ne è rimasto scioccato”. Vorrei sapere cosa ne sa lei della parola scioccato. O della parola morte, anche se non sono strettamente connesse.
È già da un po’ di tempo che non ci vado, ma sono quasi certo che non ne abbia ancora fatto parola con i miei. Tanto per cominciare l’ultima volta le ho fatto credere di stare veramente bene, le ho detto di non avere più incubi la notte e di non sentire più quella strana sensazione di vuoto, di non poter far parte del mondo; anche se ciò non è del tutto vero. Lo so ho mentito, ma l’ho fatto per un buon motivo e di conseguenza credo che mi lascerà in pace, almeno per un po’. Dall’altra parte, invece, potrebbe benissimo aver già avvertito i miei, che però, per una strana coincidenza o semplicemente per volontà divina, hanno deciso di smettere di intromettersi nella mia vita, un’ipotesi che però non ritengo affatto plausibile.
Un’altra cosa che mi fa perdere la testa all’inverosimile è la smania di molte persone di volermi aiutare, come se dipendesse da loro l’evolversi degli eventi e come se cercando di allungare la loro mano, possano in qualche modo arrestare la valanga. Ma il punto che non capiscono è proprio lì: nel fatto che non possono, e non potranno mai farci niente. Vuoi aiutarmi? Mi dispiace deluderti, ma non puoi.
Quando ormai hai lanciato la palla, non puoi più tornare indietro, e l’unica cosa che ti resta da fare è restartene buono a guardare dove andrà a colpire. Il mio problema però è che non ho ancora lanciato nessuna palla. Semplicemente non mi interessa lanciarla.
Per me i giorni vanno avanti così, senza un senso e senza uno scopo, tutti uguali. Mi accorgo che sono vivo perché respiro. Vado avanti a ripetermi che sono un disastro completo, mi dico che devo fare molto di più, che i miei genitori non si meritano tutto questo, dopo la sofferenza che gli ho già causato non è giusto continuare a infliggergliene. Eppure non riesco a comportarmi diversamente; a volte è tutto così confuso che nemmeno so di esserci, nemmeno so di vivere.
Se l’esistenza di una persona dipendesse dal grado di felicità che ha... be’, allora potrei ritenermi morto e sepolto da un pezzo. L’ironia della battuta mi scatena un vuoto improvviso, ma fingo di non sentirlo.
L’autobus si ferma all’entrata della scuola accostando sul viale coronato di alberi. Il cancello nero in ferro battuto è spalancato, questa scuola sembra una prigione.
Non si direbbe che Londra sia una prigione, finché non ci vivi dentro e te ne accorgi.
Scendo da quell’autobus, dove l’autista ha la faccia ancora incazzata: chissà cosa avrebbe preferito fare questa mattina invece di scarrozzare studenti su e giù per le strade.
Nel piazzale della scuola ci sono decine e decine di ragazzi e ragazze sotto un cielo grigio, tutti con lo zaino sulle spalle e cappotti ben abbottonati, con sciarpe accollate e cappelli di lana, che aspettano solo il suono della campanella per entrare nelle aule. Alcuni ridono, altri si danno pacche sulle spalle, mentre alcune ragazze si sussurrano all’orecchio.
Passo tra di loro, senza degnarli nemmeno di uno sguardo, e nemmeno loro si curano di guardarmi. Da lontano vedo Ryan Gill, il mio migliore amico. Il mio ex migliore amico. Mi guarda anche lui e sembra che voglia salutarmi ma non gliene lascio il tempo, svolto l’angolo e mi ritrovo sulla gradinata dell’ingresso principale. Non voglio parlare con nessuno. Nemmeno con Ryan. Salgo quei cinque scalini che mi separano dalla porta aperta, ed entro nell’edificio in mattoni rossi.
Ryan alle mie spalle scuote la testa e fa spallucce, mentre riprende a parlare con i suoi nuovi amici. Sembra rattristato, ma poi uno di loro dice qualcosa e lui si mette a ridere. Non penso che ridano di me, non faccio ridere proprio nessuno.
Mi giro per non vederlo più e cerco di ricordarmi in quale aula dovrei dirigermi stavolta. È giovedì mattina e ho lezione di scienze alla prima ora. Ho sempre pensato che non sarebbe stato facile evitare gli sguardi degli altri, e invece devo ricredermi perché da tre anni a questa parte ci riesco benissimo.
So perfettamente dove si trova l’aula di scienze, ma non intendo arrivarci subito, prima del suono dell’ultima campanella: se arrivo troppo in orario rischio di incontrare qualcuno in aula ed essere costretto a scambiarci due parole. Non mi va di parlare, non lo faccio da un bel po’ e non credo di esserne più capace.
Svolto l’angolo sovrappensiero e una ragazza mi viene improvvisamente addosso. Sbatte contro di me e sussulta, fa un balzo all’indietro per la sorpresa.
«Scusami», dice, poi alza lo sguardo e mi sorride imbarazzata. La conosco: è Mary Lou Finger, andavamo all’asilo insieme ma non ci siamo mai frequentati.
Mentre lei continua a guardarmi a un tratto, sento come un tuffo al cuore e trattengo il respiro, mentre mi lascio trafiggere dai suoi occhi e mentre mi immergo in quelle profondità senza nome. Non riesco a smettere di guardare il suo sorriso e in quel momento è come se tutto fosse perfetto: la paura, il buio, la morte spariscono, cancellati dalla luminosità del suo sorriso, quel sorriso rivolto solo a me. Quello sguardo che guarda solo me.
A un tratto il silenzio si rompe: la campana di vetro all’interno della quale mi trovavo da troppo tempo, si infrange e il rumore degli studenti che gridano nei corridoi mi riempie le orecchie.
Resto frastornato da così tanti suoni tutti all’improvviso. La guardo e mi sento girare il mondo attorno.
Lei sta ancora sorridendo, mentre gli altri ci passano accanto ed io resto imbambolato a guardarla, incapace di dire qualsiasi cosa, e certo che se aprissi bocca in questo istante direi sicuramente una stupidaggine.
Poi lei muove leggermente la punta di un piede e solo adesso mi accorgo che le sto bloccando il passaggio. Non vorrei lasciare che se ne vada, ma mi sposto per farla passare.
«Grazie...», mormora guardandomi da sotto la frangia. Ancora non riesco a dire niente e lei si sta già allontanando, devo fermarla, anche se non so perché. Quando all’improvviso sento domandare dalle mie labbra:
«Esci con me oggi pomeriggio?»
Lei si volta. Sono attimi in cui io potrei morire di nuovo. Tutto dipende dalla sua risposta. Sgrana gli occhi castani e fa un debole sorriso. «Sì», dice semplicemente, poi si allontana e viene risucchiata dalla massa di studenti in movimento.
Alcuni mi urtano alla spalla, altri passano senza nemmeno vedermi, ma all’improvviso io li vedo tutti. All’improvviso li sento tutti.
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2
MARY LOU
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Un giorno ti svegli e scopri di essere una scrittrice.
Ok, no, non è del tutto vero, diciamo che mi sono svegliata e ho immaginato di esserlo. L’ho immaginato subito dopo un sogno che ho fatto.
Sì, lo so: non è da tutte le adolescenti di sedici anni fare un sogno così, no?
La mia vita oscilla tra un insuccesso e un altro. A volte mi sento ridicola, ogni giorno sono depressa, spesso ho la mania dell’ordine e del pulito; ma il 99% delle volte nella mia camera sembra si sia svolta la guerra dei due mondi: quella tra calzini e magliette; per di più ho istinti suicidi almeno una volta a settimana; non male, eh?
Credo di avere seri problemi di adattamento e non sono niente se considero la mia innata predisposizione agli studi, insomma: non si è mai vista una sedicenne amante della letteratura!
Ho i capelli color paglia bagnata, e in fondo hanno anche la stessa consistenza. Occhi castani chiari e labbra e mento piccoli. A volte vorrei non andare a scuola, ma non ho mai saltato una lezione, neanche con la febbre. Mi piacerebbe andare al cinema un po’ più spesso di quanto vada adesso e adoro disegnare, ogni tanto. Ah, sì: odio il ketchup... e le caramelle alla menta: hanno lo stesso sapore del dentifricio.
Ma in quel sogno non sembravo nemmeno più io. Cioè: ero io, ma era come se non lo fossi. Voglio dire: non che dipendesse da me, o che all’improvviso mi piacessero le caramelle alla menta, certo che no; ma ero più grande, più consapevole. Ero semplicemente... diversa.
In quel sogno ero una scrittrice e stavo facendo il mio primo discorso in pubblico per il mio romanzo d’esordio. Cosa veramente assurda se si considera il fatto che sono estremamente allergica alle persone, sono troppo timida perché riesca a spiccicare anche solo una parola in aula, figuriamoci esprimere un discorso di fronte a una platea intera!
Eppure in quel sogno non mancava proprio niente: c’erano gli spettatori (tantissimi!), la mia amica Megan, mia madre, il tavolo di presentazione con le copie del romanzo e i segnalibri, il computer per trasmettere le diapositive; avevo anche in mano un microfono.
Mi tenevo sul bordo del palco (oddio: c’era pure il palco!), e avevo indosso un lungo cardigan beige sopra un paio di jeans stretti e a vita alta. Ai piedi indossavo scarponcini marroni.
Mi voltavo spesso in direzione di mia madre cercandola con gli occhi, come a chiedere un po’ di incoraggiamento e allora lei sorrideva e mi salutava con la mano dal fondo della sala: era sola, senza uno dei suoi soliti accompagnatori del bar.
Inutile dirlo: quella sera dovevo aver bevuto parecchio per riuscire a fare un sogno del genere. Eppure l’idea di scrivere un romanzo ha continuato a baluginarmi in testa per tutta la settimana, tanto che quando Tristan Colin mi ha chiesto di uscire insieme questo pomeriggio, ho detto di sì.
«Che COOOSA?», Megan quasi grida quando le racconto tutto. «Ma non puoi!», sbotta.
«Oh, certo che posso: gli ho appena detto di sì», le faccio notare passandomi la limetta su un’unghia per limarla. Ripenso alla faccia che ha fatto Tristan Colin quando gli ho detto di sì: sembrava sorpreso, come se non se lo aspettasse, ma negli occhi aveva quella punta di desiderio di chi attende un simile momento da anni.
«Ma Tristan Colin è il ragazzo più sfigato della scuola! Sant’iddio, come hai fatto a dirgli di sì? Ancora non riesco a capire dove abbia trovato il coraggio per chiederti di uscire», Megan mi guarda con un misto di compassione e disagio, poi dice: «Si può sapere a cosa stavi pensando quando hai accettato?»
La guardo per un po’, soffermandomi sui suoi ricci rosso scuro e sulla camicetta azzurra che indossa. «A un sogno che ho fatto», rispondo lasciando cadere la limetta sul banco.
«E sarebbe?»
Non so bene se dirglielo o meno, e resto a fissarmi le unghie come se fossero la cosa più importante del mondo, poi decido che in fondo non c’è niente di male.
«Be’... ho sognato di essere una scrittrice», la guardo aspettandomi chissà cosa.
«Una scrittrice?», mi osserva come se avessi detto “Ho sognato di essere un extraterrestre su Marte”, e la cosa mi dà un pochino sui nervi.
«Sì, ma... be’, era solo un sogno, ok?», mi giustifico facendo spallucce e mettendo su un finto broncio.
«Be’, meno male», ride facendo scrollare tutti i suoi riccioli. «Non ti vedrei affatto nei panni di una scrittrice!»
Il suo commento mi ferisce un po’, ma cerco di non dargli peso e allungo una mano per prendere il libro di storia.
Non avrebbe senso prendersela a male per un commento così, anche se detto da un’amica.
«Dovrai raccontarmi tutto della tua uscita con Tristan», decide Megan all’improvviso con aria saputella mettendomi una mano su una spalla. «Voglio sapere proprio tutto, fin nei minimi particolari».
La guardo da sotto la frangia e apro il libro, cerco il capitolo al quale eravamo rimasti la volta prima e inizio a leggere senza risponderle.
Scorro gli occhi sulla pagina e sugli articoli dell’antica Grecia e cerco di concentrarmi sul Partenone, ma mi ritorna in mente la proposta di Tristan Colin. Perché mi ha chiesto di uscire con lui, così all’improvviso, senza un motivo vero e proprio? Se non gli fossi praticamente finita addosso, mi avrebbe invitata lo stesso?
Non ci siamo mai frequentati, raramente ci salutiamo, non vedo perché debba uscire con lui. Con tutti i guai in cui potrei cacciarmi questo è decisamente il peggiore di tutti.
Decido che al termine della lezione andrò a cercarlo per spiegargli che è stato tutto un malinteso, e che non volevo affatto dirgli di Sì e che mi sono sbagliata. Sì, farò esattamente in questo modo.
Mi volto verso Megan, ma senza avere davvero intenzione di raccontarle il mio piano; lei mi sorride e finisce di aggiustarsi l’eye-liner sugli occhi.
Il professore entra in classe e la lezione finalmente comincia, anche se io ho i pensieri da tutta un’altra parte. Non riesco a prestargli attenzione neanche quando annuncia il compito in classe per la prossima volta, così che Megan deve ripetermi tutto.
Mi piace la scuola, è uno dei momenti in cui me ne sto lontana da casa, senza pensare ai miei problemi, dedicandomi allo studio, immergendomi interamente nella letteratura, nella chimica e nella scienza. Ma adesso, per colpa di Tristan Colin, neanche più lo studio sembra riuscire a distrarmi.
Nell’ora successiva abbiamo biologia. Riordino le mie cose e raggiungiamo i nostri armadietti per cambiare i libri di testo e prendere i camici da laboratorio. Se voglio liquidare Tristan devo farlo entro questa stessa mattina, altrimenti non troverò un’altra occasione prima di questo pomeriggio.
Prendo un elastico per capelli e li lego in una coda di cavallo, poi con Megan scendiamo all’aperto nel cortile interno all’istituto, attraversiamo tutto il piazzale, mentre fuori ci sono ragazzi e ragazze che fumano e si sente distintamente l’odore di canna.
Camminiamo fino a raggiungere il tunnel ed entriamo nella serra. Megan cammina davanti a me e vedo che sta facendo tutto il possibile per farsi notare da Mark Tuner, ancheggiando e indirizzandogli sorrisi maliziosi. Lui e Jake Sullivan, il mio ex ragazzo, sono già ai loro posti e Jake sta leggendo qualcosa sul libro aperto. Sono certa che anche stavolta si sarà dimenticato di studiare e come al solito tenterà di recuperare tutto all’ultimo minuto.
Oltrepassiamo le piante officinali, e raggiungiamo i banchi disposti a ferro di cavallo per prepararci alla lezione.
Mentalmente sto preparandomi un discorsetto per Tristan, da poter usare senza ferirlo troppo e senza sembrare scortese, qualcosa tipo: “Ciao Tristan, mi spiace aver frainteso il tuo invito. Ci vediamo come sempre a scuola!”.
Potrei anche scriverglielo per messaggio, ma non ho il suo numero di cellulare e non sono neanche intenzionata a chiederlo a qualcuno.
Sto per sedermi al mio posto quando nella serra entra Tristan Colin e per poco non mi lascio sfuggire un’esclamazione di sorpresa.
«Ehi, ma si può sapere che hai?», mi chiede Megan.
Avevo completamente dimenticato che Tristan ha lezione di biologia con noi. La guardo di sfuggita e scuoto la mano: «Niente», dico, ma si vede che fingo e intanto sento crescere la tensione. Devo parlargli, mi dico, devo farlo.
Mi siedo al mio posto, mentre Megan sorride a Mark e gli fa un cenno di saluto con la mano. Jake che è accanto a lui sta guardando da tutta un’altra parte, seguo incuriosita il suo sguardo e mi ritrovo a fissare Tristan che mi osserva. Avvampo e abbasso velocemente gli occhi, poi mi volto verso la mia amica. «La vuoi smettere di fare la bambina?», dico a denti stretti.
«Oh... pensa al tuo Jake. O meglio, a Tristan. O anche a tutti e due se preferisci», borbotta. «Io penso a Mark», continua a sorridergli.
Scuoto la testa rendendomi conto che la mia amica Megan McCollins ormai è senza speranza, e mi volto a prendere il libro di testo iniziando a sfogliarlo. Tiro fuori anche il mio blocco per appunti e alcune matite colorate che uso per evidenziare in modo diverso i nomi delle piante e dei parassiti che le colpiscono.
Penso a quante volte ho rinunciato a cogliere un fiore per la mia collezione, proprio perché affetto da una di queste malattie. Riconoscerle è importante anche per l’essiccazione della pianta stessa. Vari tipi di parassiti possono causare muffe e funghi sulle foglie e il conseguente deperimento del fiore e dei petali, facendogli perdere qualsiasi traccia del colore originario.
Stiamo studiando la parte dei parassiti e Megan mi passa un vaso di Valeriana colpito da Botrytis cinerea, ma mentre mi sporgo per prenderlo faccio cadere per sbaglio il libro di testo che trascina con sé anche penne e fogli per appunti.
Trattengo il respiro come se così facendo riuscissi a fermarne la caduta.
Ma quando il libro tocca il suolo, il rumore è assordante nel silenzio assoluto della serra. Il professore mi lancia un’occhiataccia, ma per mia fortuna decide di lasciar correre e non dire niente, mentre divento tutta rossa in viso e borbotto uno: «Scusate...»
Non ho il coraggio di voltarmi e guardare indietro, in questo momento vorrei soltanto sprofondare, e ho la netta sensazione che Tristan mi stia fissando già da un po’.
Raccolgo il quaderno e le penne e rimetto tutto sul banco in maniera caotica. Cerco di riordinare i fogli sparsi e infilo tutto nel blocco degli appunti. Sistemerò tutto a casa, decido.
Mi volto per guardare finalmente il vaso di Valeriana. La Botrytis cinerea non è ancora riuscita a causare danni irreparabili alle foglie. Il nostro compito è quindi quello di trovare un rimedio naturale per la pianta, nel caso non riuscissimo, passeremo ai rimedi chimici.
La Botrytis cinerea o muffa grigia è un fungo parassita aerobico, cioè che si sviluppa in presenza di ossigeno, e polifago, e ciò significa che può attaccare diverse specie di piante; attaccando principalmente i frutti, ma a volte anche germogli e foglie.
Apro di nuovo il libro di testo e cerco nell’indice il capitolo dedicato ai preparati naturali, quando Megan mi dà una leggera gomitata su un fianco.
«Ehi, Mary Lou...», sussurra Megan.
«Mh...?», faccio io distratta, sottolineando delle frasi sul testo.
«Tristan non ti ha tolto gli occhi di dosso nemmeno per un secondo».
Il mio cuore salta un battito e smetto di sottolineare.
«Ma che dici...», mi fingo disinvolta, ma in realtà sono nervosa. Riprendo a sfogliare il libro senza alzare gli occhi dalle pagine, fingendo che la cosa non mi turbi minimamente e continuando a sottolineare quello che penso che sia importante.
«Ho notato come ti guarda, sai?», continua Megan.
«Ah... e come mi guarderebbe?», stringo più forte la matita nella mano. Ho lo sguardo fisso sul libro e non intendo alzare gli occhi dalle pagine. Non posso lasciarmi influenzare da certe cose; dopotutto ho deciso di evitare l’appuntamento in un modo o nell’altro. Abbandono la matita gialla e ne prendo una rosa.
«Non lo so», borbotta Megan. «Non so esprimerlo a parole, ma è piuttosto inquietante».
Inquietante?
Avrei immaginato un sacco di altri aggettivi, ma non questo.
Incuriosita, sollevo leggermente la testa verso Tristan. È vero: mi sta guardando, e non ha nemmeno abbassato lo sguardo quando ho incrociato i suoi occhi! Potrebbe almeno fingere un po’ di discrezione, non sarebbe male come idea, forse dovrei dirglielo.
Torno infastidita a leggere il libro di testo e mi porto la matita alle labbra mordicchiandone la cima. Non ho voglia di rovinarmi la mattina scervellandomi su qualcuno che non sa smettere di fissarmi neanche un po’. Deve avere qualche problema di approccio se si comporta così, e probabilmente è per questo suo comportamento maniacale che viene considerato il ragazzo più sfigato della scuola. Ma non sono stata io quella ad avergli detto di sì? Accidenti.
Mi concentro sul libro e sul paragrafo dei rimedi naturali che ho trovato, ma mi sento tesa per tutta la durata della lezione e quando finalmente arriviamo al termine e suona la campanella di fine ora, tiro un sospiro di sollievo, ma quando mi volto, mi accorgo che Tristan è già andato via. Mi irrigidisco.
Dopo aver passato due ore all’interno della serra con i suoi occhi costantemente puntati su di me, mi aspettavo che dicesse qualcosa o che almeno mi salutasse. E intanto ho perso un’altra occasione per declinare l’appuntamento.
«Oggi devo studiare», dichiaro decisa a Megan, mentre raccolgo tutte le mie cose, compresa una penna che era finita sotto al banco e che prima non avevo notato. «Non sono stata molto attenta in classe e devo recuperare; dovrò dire a Tristan che non posso uscire con lui».
Lei mi guarda con disapprovazione, ma poi fa spallucce senza dire niente. Ci dirigiamo ai nostri armadietti e trovo un post-it giallo attaccato al mio sportello.
Ti aspetto dopo la scuola,
alle 4:30pm
al bar all’angolo
sulla Kensington Road.
Tristan C.
Resto a bocca aperta. Perfetto: adesso non posso più rifiutarmi.
«È cotto», Megan mi lancia uno sguardo d’intesa molto allusivo e mi dà una pacca sulla spalla. Io fisso il post-it giallo, senza riuscire a dire una sola parola.
Per tutta la mattinata ho pensato a una qualsiasi scusa, a un modo carino per dirgli di no, e adesso mi ritrovo ad accettare il suo invito senza riuscire a declinarlo in alcun modo. Sono già abbastanza confusa dal suo comportamento nella serra per riuscire a sopportare l’idea di un intero pomeriggio da soli.
Non riesco a pensare a niente, proprio a niente. All’improvviso la gola è come se mi si fosse seccata e ho difficoltà pure a deglutire, mentre continuo a fissare il post-it. Come diavolo ho fatto a cacciarmi in questa situazione?
Mi mordo il labbro come a voler fermare l’irritazione che cresce, ma ormai sono già arrabbiata. Afferro il post-it e lo appallottolo tutto prima di gettarlo dentro all’armadietto. Poi richiudo con forza lo sportello e mi dirigo all’uscita, saluto Megan e mi avvio a casa a piedi. Non ho voglia di aspettare l’autobus, potrei rischiare di parlare con lui e già dovrò sopportarlo per tutto il pomeriggio.
Da lontano lo vedo che mi sta guardando; spero che non gli frulli per la testa che per caso io... oddio! Lì per lì sono tentata di raggiungerlo e fargli una scenata davanti a tutta la scuola, ma non mi sembra il caso. Combatto un attimo contro l’impulso di prendere qualcuno a schiaffi e mi allontano.
Arrivata a casa, salgo di corsa le scale e mi fiondo in camera mia senza nemmeno pranzare. Improvvisamente sono così agitata che mi è passato pure l’appetito. Trovare quel biglietto lì attaccato al mio armadietto è stato un duro colpo, non me lo sarei mai aspettato. Chiunque, passando di lì, avrebbe potuto vederlo e chiunque avrebbe potuto pensare che Tristan ed io... sì, insomma, che uscissimo insieme.
Mi sento tradita. Un conto è uscire con lui, un altro è farlo sapere a tutta la scuola. Mi rimprovero per non essere stata capace di parlare con Tristan. Con tutto il casino che mi ritrovo a dover affrontare a casa, l’uscita con un ragazzo è certamente l’ultima delle cose a cui andrei a pensare. Però adesso non ho altra scelta, per cui devo escogitare un modo per riordinare casa e uscire con Tristan nello stesso giorno senza che mia madre lo sappia.
A scuola sono considerata una studentessa modello e una tra le ragazze più popolari, ma solo perché nessuno di loro immagina neanche solo lontanamente in quale abisso viviamo io e mia madre. Quando lavorava ancora al centro educativo, la nostra vita era fantastica. Uscivamo spesso insieme, anche solo per fare la spesa. E la sera a cena portava sempre qualcosa di carino, come un dolce alla frutta o una scatola di cioccolatini. Ma dopo che il centro educativo ha chiuso e mia madre è stata licenziata, si è trovata costretta ad accettare un misero lavoro in un bar e da quel giorno in poi le cose non sono più le stesse.
Se studenti e professori venissero a conoscenza della realtà dei fatti, sono convinta che molte opinioni sul mio conto cambierebbero e allora non sarebbero più tutti così allegri e sorridenti con me. Insomma: chi vorrebbe mai frequentare la vera me?
Squilla improvvisamente il telefono e corro a rispondere.
«Casa Finger», dico sollevando la cornetta e portandomela all’orecchio.
«Mary Lou, sono io».
«Megan?», chiedo sorpresa, non mi aspettavo una sua telefonata.
«Volevo solo dirti di stare tranquilla... forse non è il caso che ti arrabbi per così poco».
Mi metto a sedere sul letto: si sta riferendo al modo in cui mi sono comportata all’uscita da scuola, ma non ho alcuna intenzione di reagire in maniera diversa, né di farmi fare la predica da una come Megan.
«Sì, insomma: te ne sei andata via in quel modo... eri così arrabbiata...».
«Me ne sono andata via in quel modo, perché era l’unico modo plausibile!», la interrompo acida.
Megan sospira. «Dai, Mary Lou, non è vero che Tristan Colin è il ragazzo più sfigato della scuola...».
«Sì, che lo è», mi sto comportando come una perfetta bambinetta viziata e me ne rendo conto, solo che non riesco a stare tranquilla: questa mattina quando mi ha guardata, mi sono sentita sprofondare, non voglio rischiare di uscirci più di una volta soltanto.
Mi volto verso la finestra come a cercare una scusa per riattaccare, poi sento Megan sospirare e dire:
«Solo perché non lo invitano alle feste, non significa che lui sia quello che dicono che sia. Stai a sentire: girano voci sul suo conto molto strane... Dicono che sia costretto a frequentare le sedute dalla psicologa della scuola...»
Fantastico! Alzo gli occhi al cielo: ci mancava solo questo. Adesso sì che non vedo l’ora di incontrarlo.
«È per via di un certo trauma che ha subìto quando era piccolo», dice Megan.
Sospiro, o meglio: sbuffo.
«Che c’è?», esclama Megan in tutta risposta. «Non ti sembra una cosa così romantica?»
«Romantica?», le faccio eco. La mia amica mi sembra improvvisamente impazzita, mi chiedo se sia sana di mente almeno lei.
«Certo!»
«Megan, tu non stai bene», sbuffo per l’ennesima volta.
«Senti, adesso devo riattaccare, c’è mia madre che mi chiama...».
«Oh, per carità, vai pure! Tanto sono io quella che deve uscire con il ragazzo più sfigato della scuola, no? Che per giunta è anche un pazzo».
«Mamma, adesso attacco!», grida Megan dall’altra parte del telefono.
«Senti devo proprio andare», dice poi rivolta a me.
«Sì, ho sentito», mormoro.
«Mamma, ti ho detto che arrivo!», grida ancora. «Ci sentiamo Mary Lou, fammi sapere come è andata!»
«Sarà uno schifo», dico e riaggancio.
Nel silenzio che è calato resto a fissare per un po’ il telefono, poi mi alzo e inizio a rovistare nella mia camera in cerca di panni sporchi da mettere in lavatrice. La mia camera è molto grande, come tutte le stanze di questa casa in fondo. Le abitazioni in Kensington Road sono tutte molto belle con un piccolo angolo di giardino privato, ma non so per quanto ancora potremmo permetterci di pagare l’affitto di questa casa. Con il nuovo lavoro di mia madre le entrate sono calate drasticamente e penso addirittura che non potrò nemmeno permettermi l’università.
Recupero due magliette e un paio di calzini. Poi passo alla camera di mia madre: il suo letto è ancora da rifare e le persiane della finestra sono chiuse. Prendo un paio di jeans suoi e una canotta e butto tutto in lavatrice aggiungendo il detersivo e l’ammorbidente. Poi torno in camera di mia madre, spalanco la finestra e le persiane per cambiare aria e rifaccio il letto cambiando le lenzuola.
Megan è la mia migliore amica sin dai tempi dell’asilo, ma a volte proprio non la capisco.
Ha in testa un’enorme massa di capelli riccioluti e rossi, due bellissimi occhi azzurri e un sacco di lentiggini sul naso e sulle guance. Ama la moda e il suo armadio è stracolmo di abiti firmati; adora soprattutto le minigonne e gli stivaletti.
Messe a confronto siamo totalmente diverse. I miei capelli sono lunghi e lisci, biondo scuro. Ho gli occhi di un castano molto chiaro, quasi dorato e pelle bianca, senza traccia di lentiggini. Siamo completamente diverse anche nel carattere. Lei è molto più spigliata di me, molto più in gamba con i ragazzi e ci sa fare anche con le battute scherzose. Invece io sono un disastro completo. Ho voti molto alti perché sono brava più o meno in tutte le materie e spesso le passo i compiti, ma quando si tratta di uscire con un ragazzo divento paranoica, a partire da: “che cosa mi metto?” .
Ecco direi che i voti scolastici sono l’unica cosa perfetta nella mia vita, tutto il resto sarebbe da rifare, a cominciare da me stessa, da un padre che non ho, da una madre che non c’è mai, dal mio ex ragazzo che l’unica cosa che sapeva fare era fissarmi le tette mentre stavamo parlando di storia, e se ripenso a lui mi viene in mente che non ha ancora perso questo vizio.
Passo l’aspirapolvere su tutto il piano superiore compreso il bagno, spolvero la libreria e lucido lo specchio, quando infine lancio un’occhiata all’orologio: manca solo un’ora all’appuntamento e oggi non ho nemmeno pranzato per l’agitazione. Corro a farmi una doccia e mi asciugo in fretta i capelli frizionandoli prima con un asciugamano: so che non dovrei farlo e che rischio di rovinarli in questo modo, ma non ho altra scelta, sono in ritardo.
Una delle cose che mi irritano di più in assoluto è che ogni volta che devo vedermi con qualcuno il mio armadio sembra nascondere tutti i vestiti migliori che ho, e tutto ciò che mi capita tra le mani non va mai bene, quindi finisco sempre col mettermi le solite cose.
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3
TRISTAN
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Non riesco a credere di averlo fatto davvero. Oltre ad averla invitata a uscire le ho anche lasciato un biglietto attaccato al suo armadietto.
Oggi. Oggi usciremo insieme. Che mi è saltato in mente? Perché l’ho invitata a uscire? Mary Lou è una delle ragazze più popolari della scuola, una delle più carine e una delle più simpatiche. Soltanto i ragazzi in gamba come Jake sono da sempre riusciti a strapparle un appuntamento.
Chissà come deve essersi sentita quando mi ha detto di sì: probabilmente non sapeva che cosa stava dicendo, o forse le facevo così pena da non riuscire a rifiutare. Credo che non si farà viva.
Va bene, anche se non dovesse venire, non sarebbe un problema, non avrei nemmeno dovuto invitarla. Non avrei dovuto punto e basta. Eppure le mie labbra si sono come mosse da sole questa mattina. Quando l’ho vista è come se un sole fosse improvvisamente entrato nella mia vita, abbagliando tutto il resto; e so che questo è sbagliato, ma forse lei potrebbe in qualche modo rappresentare la mia ancora di salvezza.
Nell’ora di biologia ero talmente interessato a lei da non riuscire ad accorgermi di stare a osservarla continuamente. È stato Aaron Wieser, il mio compagno di banco, che a un certo punto al termine della lezione mi ha detto di smetterla di fissarla, perché mi stavo comportando come un maniaco ossessivo. E così mi sono alzato e me ne sono andato. In fondo aveva ragione, ma che posso farci se Mary Lou riesce a catturare la mia attenzione distraendomi da tutto il resto?
Raggiungo casa in mezz’ora di cammino e non mi fermo nemmeno a osservare gli animali che incontro lungo il percorso, come invece faccio di solito, appuntandomi i loro nomi su un taccuino e andando a ricercare le loro abitudini su testi di zoologia trovati in internet.
Entro dalla porta sul retro che è sempre aperta e che dà sulla cucina e saluto mia madre.
«Com’è andata a scuola?», mi chiede sforzandosi di sorridere. È seduta al tavolo, con i capelli spettinati e l’aria assente.
«Non male», dico e dopo tanto tempo, questa frase ha sul serio qualcosa di vero. Afferro un panino, di quelli che mia madre mi prepara sempre per il pranzo. «Vado a studiare», le dico mentre salgo i gradini fino alla mia stanza, lei sorride e annuisce, ma quando entro dentro, getto lo zaino sul letto, accendo il computer e accedo a Facebook.
Mia madre non mi chiede molto sulla mia vita privata e a me va bene così, non mi va di parlarne, né con lei né con nessun altro. Le dico che va bene e lei preferisce così. Non osa nemmeno mettere più piede in camera mia, ogni cosa la faccio da solo, dal rifarmi il letto ogni mattina a spolverare gli scaffali e la scrivania. Certo la polvere a volte è un po’ eccessiva, ma riesco quasi sempre a rimediare.
Appena si apre la pagina di Facebook digito subito il suo nome e la trovo: dalla foto che ha sul profilo deduco che sia passato qualche mese dallo scatto, perché adesso ha i capelli molto più lunghi e a parere mio è ancora più bella.
Apro le altre foto e mi sento un po’ come uno stalker che spia la sua vita privata. Non ci sono molte foto, le più sono in compagnia della sua amica, Megan McCollins. Una foto le ritrae insieme su un’altalena all’interno di un parco: Mary Lou indossa un vestito a fiori rosa senza maniche ed è in piedi sul sellino alle spalle di Megan che sta seduta e dietro di loro ci sono alcuni alberi e cespugli; in un’altra foto invece sono assieme al parco giochi, mentre mangiano dello zucchero filato. Le due foto sono state scattate in due giorni diversi perché Mary Lou nella seconda indossa jeans attillati e felpa verde.
Mi chiedo chi stesse scattando le foto in quel momento, quando a un tratto ne trovo una con Mary Lou accanto a Jake Sullivan, lui con un braccio le cinge le spalle trattenendola a sé, mentre lei sorride con una tazza di cioccolata calda in mano. Indossa un cappotto verde e una sciarpa viola, la stessa che le ho visto questa mattina a scuola.
Scorro per vedere se ci sono altre foto: Mary Lou seduta su una panchina e Jake accanto a lei che le tiene le mani. Mary Lou e Jake che ridono su una giostra di cavalli. Mary Lou che indica qualcosa in una vetrina di un negozio e Jake che guarda accanto a lei, ed è estate perché entrambi hanno pantaloncini, magliette a maniche corte e infradito o sandali ai piedi. Trovo altre foto, non molte per la verità, ma sempre con Mary Lou e Jake assieme. Sento una punta di gelosia alla bocca dello stomaco e non so spiegarmi il motivo. Mary Lou è stata la ragazza di Jake, anche se adesso per quello che ne so fra loro dovrebbe essere finita, o forse no?
Resto a fissare la sua foto del profilo, quella dove lei sta sorridendo da sola e mi lascio catturare dal suo sguardo, dai suoi occhi così profondi, attenti. Mi accorgo che il suo sembra uno sguardo malinconico, lei sorride ma i suoi occhi sembrano tristi.
Mi chiedo se di una come lei potrei fidarmi, raccontarle tutte le mie colpe, raccontarle di quel giorno. Non sono sicuro che possa capire, quasi sicuramente rischierei di allontanarla da me raccontandole tutto; ma forse non accadrà mai, forse a nessuno al mondo dirò mai la verità.
Mi viene un nodo alla gola, cerco di respingerlo e mi distraggo continuando a guardare il suo volto così bello.
Quando spengo il computer, mi accorgo che devo sbrigarmi se non voglio fare tardi all’appuntamento.​
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