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PROLOGO

 

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Brookings,

Istituto Comunitario Orfani.

 

 

Charlotte non parla, non lo fa mai, è silenziosa nell’angolo della stanza mentre io, seduta sulla soglia della finestra con la spalla appoggiata al vetro, ascolto musica con gli auricolari. Non siamo molto diverse in fondo, nemmeno in questo.

All’improvviso la porta si spalanca di colpo e Kimberly si precipita nella stanza correndomi incontro e muovendo le labbra. Sembra che stia urlando qualcosa e capisco che mi sta chiamando a squarciagola. Spengo in fretta il lettore cd e mi sfilo gli auricolari dalle orecchie.

«…subito!», riesco solo a sentire l’ultima parola. Mi guarda disperata, ma io non ho la più vaga idea di quello che ha detto. Resto con le spalle appoggiate al vetro della finestra e la guardo ottusa.

«Ma hai capito? Devi venire subito!», ripete. Sei anni e un metro e dieci di altezza, ha la faccia paonazza, i pantaloni sporchi e i capelli castani tutti arruffati. I suoi occhi mi stanno squadrando in attesa di una risposta.

Annuisco e con lo sguardo lascio intendere: “Ok, vengo”.

Sospiro rassegnata, immaginandomi l’ennesima zuffa tra ragazzini. Non passa giorno che non litighino tra loro fino a giungere anche alle mani.

Appoggio il lettore cd e gli auricolari sul bordo del letto e la ammonisco con lo sguardo: voglio che capisca che stavolta non la coprirò davanti alla signora Stevenson.

Kimberly è solita venire da me a chiedere aiuto in caso di problemi tra ragazzini perché la mia inusuale attitudine a non parlare con nessuno riesce sempre a tirarli fuori dai guai, soprattutto davanti ai grandi.

«Ma no, Abby, che hai capito!», esclama esasperata, accorgendosi della mia riluttanza. «Non hai sentito quello che ti ho detto? C’è quello nuovo che si vuole ammazzare!»

Mi pietrifico all’istante sul posto, sentendo che anche Charlotte, dal buio del suo angolo, si è irrigidita.

Kimberly continua a strattonarmi. «Andiamo!», esclama.

Ma non l’ascolto più. In testa ho soltanto le sue parole che rimbombano come un’eco infinita: “C’è quello nuovo che si vuole ammazzare!”

Mi piomba addosso un ricordo. Un ricordo di tanti anni fa. Sola nella mia stanza. Il coltello in una mano, l’altra che sanguina dal polso. William Eliot che passa dal corridoio, mi vede e inizia a gridare: “Aiuto! C’è Abigail che si vuole ammazzare!” Avrei dovuto chiudere la porta.

Charlotte cambia improvvisamente umore. Adesso sembra quasi incuriosita da questa assurda notizia. La cerco con lo sguardo, sapendo perfettamente di non poterla vedere, ma soltanto sentire. È ancora là, nel suo angolo, in attesa che io mi sbrighi a seguire Kimberly.

Di chi sto parlando? Chi è Charlotte? Ovvio: è la mia gemella morta.

 

 

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1

HENRY

 

 

 

Brookings,

tetto dell’Istituto Comunitario Orfani.

 

 

Quando ti trovi nella situazione di essere al centro di un cerchio formato da molti ragazzi di varie età che ti fissano stralunati, alcuni scioccati, altri tenendo la bocca aperta e gli indici alzati, come in una sorta di schieramento fra te e loro, be’, allora ti sembra di stare facendo la cosa giusta. È sempre stato così, almeno per me. Più qualcuno mi dice che sto sbagliando e più penso invece di stare andando bene, di fare quello che è più giusto fare. Capisco che per molti questa cosa possa non avere poi così tanto senso, ma credetemi: ce l’ha eccome.

Il pavimento sotto ai miei piedi è in cemento scuro, impregnato di umidità e incrinato in più punti. Ai margini spuntano dei fili d’erba rinsecchita e in un angolo ho intravisto una carretta e un tubo dell’acqua, prima che la terrazza venisse invasa da tutti questi ragazzi pallidi e sconvolti che mi guardano con sospetto. 

Quando sono arrivato quassù, dieci o venti minuti fa, non c’era anima viva. C’eravamo solo io, il cielo limpido, il cemento della terrazza spoglio e desolatamente triste e la voglia incredibile di farla finita.

Nello specifico mi trovo in cima alla terrazza sul tetto di un Istituto Comunitario a Brookings, nell’Oregon. Un orfanotrofio, per dirlo in parole più comprensibili. Un posto dove vanno quelli che non hanno più nessuno.

Non ho mai visto questa città e neanche sapevo della sua esistenza fino a quando il mio assistente sociale ha aperto la pratica per richiedere il mio trasferimento.

“Potrà solo farti bene”, mi aveva detto. Non si era minimamente preoccupato di dirmi che, una volta richiesti i vari certificati, il passaporto e altre scartoffie e una volta giunto a destinazione, lui non si sarebbe più occupato di me.

“L’Oregon non è uno Stato di mia competenza”, aveva dichiarato.

In pratica si era disfatto di me. Come se io fossi una cicca appena fumata da buttare a terra e calpestare. Solo che lui non mi aveva calpestato. Non letteralmente. 

Adesso però non saprei dire come sia riuscito ad arrivare quassù, è stato come se una forza mi avesse accompagnato per le scale antincendio sussurrandomi parole di conforto come: “Ehi, Henry, stai andando bene, è tutto a posto”. Ma è la parte del - è tutto a posto - che non mi convince.

Starei sicuramente meglio senza tutti questi occhi a fissarmi come se fossi un decerebrato mentale. Praticamente è cambiato quasi tutto da quando sono arrivato: non sono più solo, il cemento della terrazza è sempre spoglio e desolatamente triste solo che non si nota per via di tutte queste scarpe da ginnastica che lo coprono. Perfino il cielo è cambiato, adesso che è attraversato da nubi sparse. Solo la voglia di farla finita è rimasta la stessa.    

Euforia.

In questo momento è esattamente quello che provo. Loro non lo sanno, non se lo immaginano neanche. Lo capisco dai loro sguardi, da queste facce allibite. Probabilmente pensano che io sia un fanatico, un incosciente o soltanto un coglione che vuole mettersi in mostra e avrebbero ragione a pensarlo. Mi sembra già di sentire le loro voci che sussurrano sgomitando: “Ehi, ma quello non ha tutte le rotelle a posto”, “Speriamo che lo faccia davvero, così si leva dai piedi”, “Che sfigato”.

Risatine. 

Ma c’è una ragione. C’è sempre una ragione per quello che faccio. Nei diciassette anni della mia misera vita, non ho mai fatto niente senza una ragione ben precisa.

Anche quando facevo un regalo a mia madre. Lo facevo perché - è il tuo compleanno, mamma, tanti auguri! - così come quando mio padre ci portava a fare un pic-nic in Central Park. “Così ci rilassiamo un po’ ”, diceva. “E passeremo una bella giornata”.

Non si fa mai niente senza un buon motivo. Questo era l’insegnamento di mio padre. Deve esserci un buon motivo, sempre e comunque, altrimenti non è la stessa cosa e stai solo sprecando il tuo tempo. E, a distanza di anni, mi sono accorto che questo tipo di insegnamento è valido più o meno su tutto, come a dire: fai le cose solo se così facendole non togli il rispetto a nessuno. In pratica le domande che mi ponevo sin da quando ero piccolo erano del tipo: ho un buon motivo per saltare la scuola? Ho un buon motivo per picchiare il mio compagno di banco? Ho un buon motivo per fare i capricci? Ho un buon motivo per mentire ai miei genitori?

Poi, crescendo, le domande che mi ponevo sono cambiate. Ho un buon motivo per restare fuori fino all’alba? Ho un buon motivo per farmi le canne? Ho un buon motivo per fare lo stronzo? Forse un tempo ero un po’ confuso, da piccolo le cose si percepiscono in modo diverso, ma adesso però il mio buon motivo ce l’ho eccome. Forse è il primo vero buon motivo di tutta la mia vita.

Passo lo sguardo sulla folla di questi ragazzi e ragazze di tutte le età, tutti residenti in questo orfanotrofio. Per me loro non significano assolutamente niente, ma in questo esatto momento io per loro rappresento qualcosa, o meglio qualcuno. Forse rappresento qualcuno che è pazzo. Quello che è certo è che non mi stanno togliendo gli occhi di dosso. A me e al coltello che stringo nella mano destra.

Ho un buon motivo per farlo?

Sì.                                     

La signora paffuta - che non ricordo come si chiama e che dovrebbe essere una delle istitutrici di questa comunità - sta cercando di dissuadermi dal mio intento e lo sta facendo in un modo così patetico che quasi provo pena per lei. Mi guarda con occhi disperati da quasi quindici minuti. Ha le mani unite come in preghiera, ma non osa avvicinarsi. Forse teme che potrei agire contro me stesso - o contro di lei - se mi sentissi sotto pressione.  

Per un attimo cerco di immaginare come sarebbe stare fra questi ragazzi in modo normale, senza il motivo che mi ha spinto a mettermi al centro di questa terrazza sul tetto. Contrariamente a come si possa pensare non voglio fare del male a nessuno, al limite solo a me stesso.

Ho bisogno di riflettere, ho bisogno di spazio, di aria per respirare. Tutti questi occhi puntati su di me non fanno altro che aumentare la mia voglia di farla finita. Alzo lo sguardo al cielo di fine settembre e alle poche nubi che lo solcano. Il sole è dietro le mie spalle e sta per calare la sera.

Dopotutto il momento è buono, sia la situazione - diciassette anni, vestito di nero, affascinante e arrogante - mi sono anche messo i vestiti buoni per l’occasione; sia le persone che mi stanno guardando. Domani mattina sarà già scritto su tutti i giornali locali, in prima pagina. Già me lo vedo: Ragazzo mozzafiato si suicida davanti a decine di persone. Nessuno riesce a fermarlo. Le ragazze piangono la sua morte e dal dolore si impongono un veto: mai più sesso.

Mi viene da ridere e mi viene voglia di farlo davvero. Poi, mentre penso a qualcosa di epico che verrà scritto sul mio epitaffio, ecco che la vedo: capelli biondo scuro, tendenti al ramato, legati in una treccia che le cade sulla spalla sinistra, salopette di jeans sdruciti e maglioncino di lana blu con le maniche risvoltate. Esce dalla folla di questi ragazzi increduli, avanza lentamente verso di me e si ferma a qualche metro di distanza.

La fisso. Mi fissa. Non sorridiamo.

Immagino sia qui per iniziare a supplicarmi anche lei. Magari sarà una di quelle ragazze che piangerà la mia morte e si farà suora e andrà a vivere in un convento del North Carolina fino alla fine dei suoi giorni.

Poi però penso che mi dispiacerebbe vederla piangere. Ha degli occhi di un verde chiaro così bello che ci resterei male se si riempissero di lacrime. Non sono occhi fatti per piangere. Quelli sono occhi fatti per essere guardati, perdendocisi dentro, fino a impazzire.

Mi domando se davvero sia qui per implorarmi anche lei. Me lo domando mentre la vedo corrugare le sopracciglia, socchiudere quei meravigliosi occhi e fare una piccola smorfia con quelle labbra deliziose.

Mi mordo l’interno di una guancia e improvvisamente mi rendo conto che se fosse lei a chiedermelo, forse potrei davvero abbandonare l’idea del suicidio. 

Però, adesso che la guardo meglio non mi sembra affatto sul punto di mettersi a piangere come avevo pensato, o sperato. Chiunque dei presenti è terrificato o sull’orlo di una crisi di pianto, ma lei invece non sembra sorpresa. La sua espressione è più simile a qualcuno che non vede l’ora che tutto finisca. E presto.

I suoi grandi occhi verdi sono carichi di odio. Odio? O è provocazione? Difficile dirlo.

Cerco di ricordarmi l’ultima volta che sono uscito con una ragazza così carina, ma non mi viene in mente e penso che forse non ci sia mai stata un’ultima volta dunque neanche una prima.

Poi, inaspettatamente, questa ragazza carina scoppia in una fragorosa risata che risuona per tutto il tetto e tutti, attorno a noi, si fanno stranamente silenziosi. Alcuni ci guardano scettici, altri con la bocca aperta. Una bionda riccioluta fa un passo avanti, verso la ragazza carina, ma viene trattenuta da un tipo alto con gli occhiali. Si scambiano un’occhiata d’intesa.   

Distolgo lo sguardo da loro e lo riporto sulla ragazza che mi sta di fronte e che non ha ancora smesso di sghignazzare. Mi mordo nuovamente l’interno di una guancia fino a farlo sanguinare e il sapore acre del sangue mi invade il palato. Aspetto che finisca. È stranamente bello vederla ridere. Stranamente, perché in effetti analizzando la situazione non c’è proprio niente da ridere.

«Scusami», dice cercando di trattenersi. «Ma la situazione è così assurda che proprio non sono riuscita a frenarmi», si giustifica, poi fa un’alzata di spalle, cercando di tornare seria.

La guardo. Lei mi guarda. Entrambi alziamo le sopracciglia. Avrei voglia di sorridere, ma nessuno di noi due lo fa.

Assurda? La situazione? Casomai è questa ragazza a essere assurda. Esatto: tremendamente assurda e tremendamente sexy.

«Lasciatelo dire», dice arricciando le labbra. «Usare il coltello non è poi tutta questa grande euforia».

Che ne sa lei dell’euforia? Sono quasi esterrefatto. È incredibile. Mi domando se sia vera, ma è qui, davanti a me, deve esserlo.

Mi accorgo che tutti gli altri stanno come trattenendo il respiro e continuano a fissarci intensamente. Alcuni parlottano tra di loro, altri la indicano, come se fosse quasi la prima volta che la vedono. Un comportamento davvero insolito poiché dovrei essere io il fenomeno da baraccone.

«Vuoi ammazzarti?», chiede poi la ragazza distraendomi dalle mie riflessioni.

La guardo.

Lei solleva un sopracciglio. «Sai che l’89% dei suicidi di tutto il mondo avviene gettandosi da una grande altezza?», chiede. «Provarci con un coltello non è poi tutta questa grande soddisfazione, non c’è euforia come prendere la rincorsa e gettarsi da un grattacielo».

Grattacielo. Io vivevo a New York, la capitale dei grattacieli, e amavo i grattacieli prima che tutta la mia vita iniziasse ad andare a rotoli senza mai più fermarsi.

«Fallo. Che aspetti?», mi sfida.

Affondo i denti nel labbro inferiore. No, non lo vuole davvero, non può. Lo leggo nei suoi occhi. Sta mentendo.

Continua a guardarmi e il suo sguardo è simile a quello che aveva mio padre quando mi coglieva in flagrante e voleva che confessassi tutto di mia spontanea volontà.

Continuo a pensare al mio buon motivo. Non posso lasciami distrarre da questa ragazza, per quanto possa essere carina e sexy.

All’improvviso una bambina esce dalla folla e si avvicina a questa ragazza. Le tira la manica del maglione chiamandola per nome, ma non riesco a capire cosa dice, solo che sembra spaventata. Lei si volta un attimo a guardarla. Le prende la mano e le accarezza la testa. La bambina si attacca alla sua gamba. Avrà sì e no cinque o sei anni.

È accaduto tutto nel giro di una manciata di secondi ma in me si sta aprendo una voragine. Deglutisco.

«Ti dico una cosa», dice all’improvviso la ragazza carina rivolgendosi di nuovo a me, ma senza lasciare la mano della bambina.

Sono attento. È strano, ma per un attimo mi sembra che ci siamo solo noi due su questa terrazza. Il vento le scompiglia la frangia e le arrossa le guance. Un’immagine perfetta. Dovrei scattarle una foto, così da non dimenticarmi di questo momento magico.

«Se vuoi ammazzarti va bene, fallo, è un tuo diritto», dice in tono piatto.

Sussulto. Questo non me lo aspettavo. Mi immaginavo qualcosa tipo: lei che mi veniva incontro decisa, che mi toglieva il coltello di mano e che, sollevandosi sulle punte, mi baciava appassionatamente.

«Le cose non cambieranno», continua implacabile. Ho un tuffo al cuore. Possibile che ogni sua parola ha un effetto così devastante su di me? Non la conosco neanche, eppure quello sguardo mi sta trafiggendo da parte a parte, facendomi sentire colpevole.

«Se vuoi veramente che qualcosa cambi, devi essere tu a cambiare per primo».

Poi mi lancia un’altra occhiata carica d’odio. La bambina si lascia sfuggire un leggero gemito. Allora capisco immediatamente che sta cercando di difenderla. Capisco immediatamente perché nei suoi occhi leggo tutto quest’odio.

Capisco che non verrà mai da me a togliermi il coltello di mano. Anche se vorrei che lo facesse.

«Abby…», è la voce implorante della bambina che le sta attaccata alla gamba e che adesso ha alzato i suoi occhioni su di lei.

Abby. È il nome di questa ragazza carina e sexy che sta mandando in frantumi ogni mia volontà.

Inizio a vacillare. L’unica certezza che avevo si sta disintegrando e mi sembra di fare un tuffo nel passato.

 La ragazza carina mi fissa di nuovo, un’occhiata fugace, ma intensa. Mi trafigge ancora, da parte a parte, come se non avessi un corpo materiale, ma fossi fatto solo d’aria.

«Andiamo, piccola. Andiamocene via. Non ne vale la pena», mormora infine alla bambina.

Merda!

Si voltano entrambe e ritornano lentamente sui loro passi. Ci mettono poco a sparire tra la folla che si apre per lasciarle passare. Dietro di loro si sollevano dei brusii e io ricado nuovamente nel mio baratro e solo adesso mi accorgo che è stato come se qualcuno avesse spento la luce all’improvviso. 

Ora. Una cosa o si fa o non si fa. Non è possibile lasciare le cose a metà. A meno che non ci sia un buon motivo per farlo e, credetemi, io di buoni motivi me ne intendo parecchio. E adesso ne ho un altro, di buon motivo. Uno di quelli che ti si aggrappano alla mente e non ti lasciano altro spazio libero per pensare. Uno di quei motivi che quando ti colgono di sorpresa fanno un male cane, si insinuano sotto la pelle e non la lasciano respirare. Ti svegliano la notte e ti lasciano con il tormento e l’inquietudine. Alcuni, questo buon motivo, lo chiamano ossessione.

Improvvisamente apro la mano e lascio andare il coltello che con un tonfo sordo cade ai miei piedi sul cemento. C’è un’ovazione generale.

Sorrido e alzo fugace lo sguardo alle nubi cariche di pioggia che si stanno avvicinando.

 

 

 

 

 

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2

ABIGAIL

 

 

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Scendo le scale con passo tremante. Mi sento intrappolata come in uno di quegli incubi in cui non hai il potere di decidere per conto tuo. Sono sconvolta.

Ho parlato. Non lo faccio mai. Non con tutti almeno. Che cosa mi è preso, sono forse impazzita?

Ho parlato tantissimo e per la prima volta, da quel giorno, non è stato così difficile. C’erano tutti, non mancava proprio nessuno e tutti hanno sentito la mia voce uscire dalle mie labbra. Una cosa mai accaduta prima. Perché? Perché l’ho fatto? Per quale motivo ho parlato a quel ragazzo sconosciuto davanti a tutte quelle persone? Non riesco a capirlo, eppure se ci provassi un solo istante scoprirei che è talmente semplice da sembrare banale. È vero o non è vero che guadandolo ho rivisto la me di quando ero bambina? Lui, il coltello che teneva stretto nella mano, il suo sguardo vuoto, perso, colmo di dolore. E in uno spazio parallelo la mia mano che stringeva il manico ruvido, la lama luccicante, i miei occhi vuoti, senza più colore. Tanti anni fa.

Scuoto la testa per allontanare ogni pensiero, mentre le gambe continuano a tremarmi a ogni scalino e ho paura che le ginocchia possano cedermi da un momento all’altro, facendomi finire lunga distesa sul pavimento, ma contrariamente alle aspettative arrivo incolume fino al primo piano.

Sì, è stato stranamente facile parlare lassù, sulla terrazza, prendere un respiro profondo ed esprimere i miei pensieri a voce alta. Ma adesso no, tutto il coraggio che avevo si è come volatilizzato, adesso tremo, ho le vertigini e mi sembra di impazzire.

Devo sciacquarmi la faccia per riprendere il controllo su me stessa, altrimenti potrei rischiare un attacco di panico o qualcosa di simile. Sento già il mio cuore battere più forte del normale e la sensazione non mi piace.

Che sia adrenalina? Ansia?

Non lo so. Non so mai niente, non sono mai stata capace di identificare le miei emozioni, di dar loro un nome. Non sono in grado di capire quello che provo, non lo sono mai stata. Dal giorno della tragedia tutto è cambiato, io sono cambiata e il mondo attorno a me non è stato più lo stesso.

Più o meno ogni essere umano riesce a capire quello che prova, quello che sente dentro di sé, che sia rabbia, amore, delusione, gioia, chiamate ogni sensazione con il nome che volete, io non riesco a identificarmi in nessuna di esse. Non sono sempre stata così, ovvio, ma è come se mi fossi congelata in un tempo o in uno spazio che non appartiene al presente, tutto ciò che vivo non lo vivo sulla mia pelle. Eppure oggi qualcosa è cambiato. Oggi sento emozioni, sensazioni, turbamenti… sento tutto e a tutto questo non so dare una spiegazione logica.

Con il fiato corto svolto l’angolo fino a giungere alla mia camera ed entrando mi chiudo la porta alle spalle. Cerco immediatamente di individuare dove si trovi Charlotte, ma non la percepisco, ho troppa confusione in testa per fare caso a ciò che mi circonda. Mi sento vulnerabile.

Mi hanno detto che chi subisce un grave shock il rischio che corre è di portarselo dietro per tutta la vita. Non so se sia il mio caso, probabilmente sì, ma non me ne importa più di tanto.

Raggiungo il bagno e mi guardo allo specchio ovale appeso sopra al lavandino, aspettandomi almeno di vederla, invece di lei nessuna traccia, solo il mio riflesso, i miei occhi increduli che mi rimandano un’immagine confusa e disorientata. Inaspettatamente ho come la sensazione che il fatto accaduto sulla terrazza l’abbia infastidita. A un certo punto, mentre parlavo al ragazzo sconosciuto, l’ho sentita avvilirsi. Era accanto a me, ma era come se fosse dietro di me, e all’improvviso se ne è andata.

Sono preoccupata e amareggiata, non è mai capitata una cosa simile e non so come affrontarla con lei. Finora abbiamo sempre combattuto assieme, confidandoci e non perdendoci mai, invece stavolta sembra che sia scomparsa, volatilizzata.

Sulla terrazza c’era, era lì, percepivo la sua presenza e il suo astio nei confronti del ragazzo sconosciuto ma, adesso, dov’è andata?

Appoggio le mani tremanti sul bordo del lavandino. Mi sento come se fossi venuta meno a una promessa. Il fatto che Charlotte sia morta e io no, mi ha portata a isolarmi completamente dal resto del mondo. James, il mio assistente sociale, mi ha detto che non devo sentirmi in colpa per la sua morte. Ma il punto non è questo. Non è il fatto che mi senta o meno in colpa, il fatto è che io la vedo, la sento. Charlotte esiste ancora. Anche se non so spiegare in quale forma.

E mi sento ancora più in colpa per il fatto che so esattamente che cosa è successo poco fa sulla terrazza: qualcosa si è rotto. Dentro di me intendo. Il punto è che non so che cosa sia. Nel momento stesso in cui i miei occhi hanno incrociato quelli scuri del ragazzo sconosciuto, mi sono sentita come sprofondare in una voragine. Ho percepito come una variazione di temperatura, tutto all’improvviso si è fatto più caldo e qualcosa in me è scattato facendomi parlare all’improvviso, dopo anni, senza riflettere sulle conseguenze.

Apro il rubinetto dell’acqua fredda e inizio a sciacquarmi il viso decidendo che è meglio non pensarci, magari una cena e una buona dormita rimetteranno tutto a posto, o almeno è quello che spero.   

Esco dalla camera e, mentre inizio a scendere le scale con passo ancora tremante, ho impressi nella mente gli occhi scuri di quel ragazzo. Faccio seriamente fatica a credere a quello che ho fatto, mi convinco che non ero io su quella terrazza, non potevo essere sul serio io. Due occhi, uno sguardo, il nero di due iridi, possono arrivare a sconvolgere così tanto una persona?

Da quanto tempo non succedeva che parlassi? Anni? Secoli? Cioè, voglio dire: parlo con Sarah e William Eliot e anche con James il mio assistente sociale ma, a parte loro tre, non parlo con nessun altro da oltre dieci anni. Può sembrare assurdo o ridicolo, ma non è che me la tiri, è così e basta. Quando devo aprire bocca e prendere la parola mi sale un nodo alla gola, iniziano a pizzicarmi gli occhi e se non mi freno finisco per piangere. Così, semplicemente. Quindi mi rifiuto di farlo.

E invece poco fa… qualcosa è successo tra me e quel ragazzo, qualcosa che mi ha spinta a venir meno alla parola data tanti anni fa. Si tratta di una promessa che risale a dieci anni fa, una promessa che ho fatto a mia sorella e che ho mantenuto fino a oggi. Mi innervosisco e mi sembra quasi assurdo e in un certo senso intollerabile non essere riuscita a mantenere la parola.

Anche per riuscire a parlare con Sarah e William Eliot ci ho impiegato un bel po’: due anni. E tutto soltanto perché William Eliot mi ha in qualche modo salvato la vita.

Sarah e Will mi facevano compagnia allo stesso tavolo, si sedevano accanto a me, mangiavamo insieme, disegnavamo insieme durante l’ora di ricreazione, ma non rivolgevo loro neanche un saluto. La nostra amicizia era fatta di sguardi. Avevamo sette anni ed eravamo totalmente diversi gli uni dagli altri. Sarah, con il suo carisma, riusciva a travolgermi come un uragano, ma a incuriosirmi di più era William Eliot, un bambino occhialuto e taciturno. Un po’ mi somiglia, pensavo. Forse anche lui ha perso una persona che amava. Invece capii ben presto che non era così, sembravamo simili soltanto all’apparenza, ma al contrario mio William Eliot era anche molto insicuro e timoroso o, per lo meno, non era pazzo e non parlava con i fantasmi.

Al termine delle scale mi guardo attorno. Lei non c’è. Inizio a sentirmi in ansia. Non mi abbandona mai per così tanto tempo. Svolto a destra e raggiungo la sala mensa varcando la soglia della vetrata. Quasi subito mi arrivano all’orecchio chiacchiere sul mio conto e su quello del ragazzo sconosciuto. Odio far parlare di me e ancora di più odio il fatto di aver parlato io davanti a tutti, quando per anni nessuno conosceva neanche il suono della mia voce.  

“L’hai sentita?”

“Ha parlato”.

“Non credevo ne fosse capace”.

“Ho sentito dire dal suo assistente sociale che non parlava con nessuno da anni”.

“A me non ha mai rivolto la parola”.

“A scuola neanche la interrogano”.

Poi voci su di lui.

“Secondo te l’avrebbe fatto davvero? Si sarebbe ammazzato?”

“Secondo me è solo un ciarlatano”.

“Voleva mettersi in mostra”.

“Guarda che faccia che ha”.

“Gli occhi, quelli sì che mettono paura”.

“Squilibrato”.

Quest’ultimo è il titolo che gli hanno già affibbiato. Lo sento mormorare ovunque, è praticamente sulla bocca di tutti. Non male per il suo primo giorno in questa comunità. Quanto a me mi rivolgono sguardi lunghi e inquisitori.

Faccio la fila al bancone e mi prendo un’insalata con una fettina impanata.

Dopotutto se ha tentato il suicidio deve aver avuto i suoi motivi, chi sono io per giudicarlo? Insomma, non si intende compiere un gesto così estremo se non ne siamo del tutto consapevoli.

Lascio volontariamente cadere lo sguardo sull’interno del mio polso e sul piccolo tatuaggio nero a forma di stella a cinque punte. Deglutisco a fatica e un brivido mi corre lungo la schiena. Quel tatuaggio è il simbolo del mio gesto estremo. Io lo avevo, il mio buon motivo. Si chiamava Charlotte.

«Ehi, il bancone non è tutto tuo!». Qualcuno si lamenta per la mia lentezza. Alzo gli occhi: è un ragazzo della comunità, uno di due anni più piccolo di me.

Non dico niente e mi allontano tenendo davanti a me il vassoio. Lancio occhiate in direzione di Kimberly che al tavolo dei bambini ride e scherza con gli amici. Uno di loro afferra un fagiolino e se lo fa penzolare dall’orecchio. Kim ne prende un altro e se lo infila nel naso. Oddio, che cosa schifosa! Scuoto la testa. È tranquilla, adesso. Non sembra affatto preoccupata come lo era stata soltanto un’ora prima, quando non smetteva di chiedermi se quel ragazzo si sarebbe ucciso davvero.

Non lo farà, non è vero?

In quel momento ho subito provato un’autentica e sincera antipatia verso quel ragazzo vestito di nero, con un cappello con visiera calato in testa, il cappuccio della felpa e il coltello nella mano. Mi ha riportato alla mente immagini che voglio dimenticare con tutta me stessa. Perché sono intervenuta? Perché non ho lasciato che lo facesse?

Raggiungo il solito tavolo dove William Eliot e Sarah mi stanno già aspettando. Mi scrutano con i loro occhi verdi e nocciola e io appoggio il vassoio sul tavolo davanti e finalmente percepisco la sua presenza accanto a me. Mi tranquillizzo, anche se mi verrebbe voglia di rimproverarla, ma faccio finta di niente perché intuisco che è di pessimo umore.

«Ciao, ragazzi», li saluto sedendomi.

«Giornata pesante, eh?», commenta William Eliot. Evito il suo sguardo e inizio a rovistare nel piatto con la forchetta.

I miei amici non sanno di lei. Cioè: sanno cosa è successo, ma non sanno che continuo a vederla e sentirla. Come potrei dirglielo? Non lo capirebbero, mi prenderebbero per pazza, non mi crederebbero mai.

«Abby, ma ti rendi conto di cosa sei riuscita a fare?», esclama Sarah scandendo ogni sillaba, fissandomi a bocca aperta e con un sopracciglio alzato. «Cioè: hai parlato!», esclama ancora.

«Lo so», non aggiungo altro. Il malumore di Charlotte fa salire l’inquietudine anche a me.

«Come ti senti?», chiede scrutandomi da sotto la frangia.

«Bene», dico, ma sembra una domanda.

Sarah mi guarda comprensiva, mi sorride e poi allunga una mano per stringere la mia. Non mi chiede altro e gliene sono grata.

«Comunque è meraviglioso quello che è successo Abby, non so se te ne rendi conto e poi… sei stata grande!», continua. «Io non avevo mai visto una cosa così, è stato pazzesco! Cioè: hai praticamente salvato la vita a quel ragazzo! E poi: inventarti la scusa che poteva anche ammazzarsi sul serio, che tanto non sarebbe cambiato niente perché la cosa doveva partire da lui e poi tutta quella storia sui suicidi. La signora Stevenson non faceva altro che implorarlo di gettare il coltello e non fare pazzie. Tu, invece, sei stata a dir poco geniale!», dice tutto di corsa, senza riprendere mai fiato.

«A dire il vero pensavo davvero quello che ho detto», dico solo.

«Be’», vacilla un po’ e sposta il peso sulla sedia. «Ma resta il fatto che è vivo e questo solo grazie a te», aggiunge facendomi l’occhiolino senza perdere il buonumore.

Non mi sento un’eroina. Ritorno con la mente alla scena che si è svolta soltanto un’ora fa sulla terrazza della scuola, con il sole del tardo pomeriggio vicino alla linea dell’orizzonte e quel ragazzo vestito di nero con in mano un coltello. Non è grazie a me se si è fermato. Forse è stato il modo in cui Kimberly si è attaccata alla mia gamba dalla paura, che qualcosa in lui è scattato. Non sono certa di sapere che cosa lo abbia dissuaso, ma resta il fatto che qualsiasi cosa sia stata non era dipesa da me. Non mi interessava salvare la vita a quel ragazzo, in fondo non lo conosco nemmeno, in quel momento volevo solo proteggere Kimberly e, forse, anche me stessa.

Fisso i miei due amici e poi riprendo a mangiare in silenzio.

«Sai, quando gli è caduto il coltello di mano… oddio!», esclama di nuovo Sarah. «Tu te ne eri già andata via. Ho creduto che stesse per svenire e invece è rimasto lì, fermo, con lo sguardo rivolto verso te, Abby. O meglio: fissava il punto in cui eri fino a un attimo prima».

Mi infilo in bocca una forchettata di insalata e inizio a masticare.

«Dicono che sia qui solo da questa mattina e ha già combinato un bel casino», continua Sarah. «Ho sentito dire dalla signora Stevenson che si trovava in un collegio a New York, prima di essere stato trasferito qui. Praticamente ha attraversato tutto il continente! Ha detto anche che è un tipo non del tutto a posto. Un tipo un po’… particolare, insomma».

«Com’è che ne sei così convinta?», le chiede William Eliot facendo la scarpetta nel suo piatto.

Sarah socchiude furbamente gli occhi. «Perché stavo origliando dietro la porta dell’ufficio della preside, la signora Mayson», dichiara come se, origliare dietro le porte, fosse la cosa più ovvia e ragionevole del mondo.

«Ehi, guardate, è arrivato…», sussurra William Eliot indicando con lo sguardo la porta della mensa.

Ci voltiamo tutti verso l’entrata, compresi gli altri ragazzi presenti nella sala. Solo dal tavolo dei bambini continuano a provenire delle risatine soffocate, come se si fossero già dimenticati di lui, ma il resto della sala è in completo silenzio.

Il ragazzo sconosciuto, vestito sempre di nero, entra nella mensa e si guarda attorno. Scruta i tavoli come se stesse cercando qualcosa, o qualcuno. Alla fine mi vede e fissa gli occhi su di me poi, senza staccare il suo sguardo dal mio, va ad appoggiarsi a una parete in fondo alla sala dove c’è poca luce e continua a fissarmi. Non si avvicina al bancone, non prende nessuna pietanza e non si siede a nessun tavolo.

Sento un tuffo al cuore, una sensazione strana che non ho mai provato prima. Continuo a fissarlo anch’io per un po’, poi mi stanco del suo atteggiamento da duro e mi volto per continuare a mangiare.

«Non sembra aver apprezzato il tuo gesto eroico», sussurra William Eliot. «Anzi, scommetto che in questo momento è te che vorrebbe ammazzare. È quasi minaccioso il modo in cui ti guarda».

«Grazie», dico fissando il mio amico. «Mi sollevi il morale, sai?»

Cerco di riprendere a mangiare come se niente fosse, ma per tutta la durata della cena non faccio altro che sentire lo sguardo del ragazzo sconosciuto puntato dritto sulle mie spalle.

Finisco quello che ho nel piatto e bevo un po’ d’acqua.

È una sensazione particolare, quella di sentirsi osservati. Un po’ come se non ti sentissi libero, come se qualcuno ti stesse mettendo le manette o qualcosa di simile. Improvvisamente mi accorgo che lei è sparita, di nuovo. Mi volto, cercando di sentirla in mezzo agli sguardi degli altri, ma niente, si è come volatilizzata. Per sbaglio incrocio nuovamente lo sguardo di quel ragazzo e sento di nuovo la stessa singolare sensazione di prima. Con estrema difficoltà distolgo gli occhi da lui.

Mi viene in mente che avevo una scatola dei ricordi quando ero piccola. Adesso si trova sotto al mio letto, nella stanza che condivido con le altre ragazze, è l’unica cosa che mi sia rimasta della mia vecchia vita. È chiusa da anni, non la tiro fuori praticamente mai, ma quello che è successo oggi sulla terrazza dell’Istituto me l’ha fatta tornare in mente. Cerco ancora una volta di allontanare certi ricordi, ma mi è praticamente impossibile.

Scosto ancora l’orlo della manica sinistra del maglione per controllare il polso. Il tatuaggio a forma di stella è sempre lì, a ricordarmi che un tempo avevo cercato la morte senza riuscire a controllarmi e che l’avrei raggiunta se non mi avessero salvata in tempo grazie a William Eliot che aveva chiamato aiuto a gran voce.

Mi accorgo che William mi sta osservando e credo che abbia letto nei miei pensieri. Ricopro il tatuaggio con il maglione e gli sorrido ingenuamente. Non voglio che si preoccupi, non più del necessario, diciamo. Sono passati molti anni, ma William è rimasto quasi scioccato dal mio gesto, tanto che in un primo momento mi evitava come la peste.

Iniziamo a sparecchiare il nostro tavolo, poi salgo con Sarah in camera, mentre le altre ragazze se ne stanno a guardare un film nella sala comune al piano di sotto. Mi sento improvvisamente stanca e vorrei solo andare a dormire. Capisco che oggi deve essere una di quelle giornate così e così. Usciamo dalla mensa, ma prima mi volto ancora un volta verso il fondo della sala. Il ragazzo è ancora lì, non si è mosso di un centimetro.

«Hai visto come ti squadrava?»

Una volta arrivate in camera Sarah si toglie i pantaloni e si mette distesa a pancia in giù sul letto, lo sguardo rivolto a me. «Sembrava che volesse… non so, parlarti forse?»

Sollevo un sopracciglio pensierosa. Inizio a indossare il mio pigiama, poi mi siedo sul letto appoggiandomi con la schiena alla testata.

«Forse voleva solo ringraziarti», ipotizza.

«Ne dubito», mormoro non del tutto convinta. «Non aveva uno sguardo molto amichevole, forse è bene che d’ora in poi io dorma con un occhio aperto», scherzo.

«Non dire fesserie!», esclama ridendo anche lei. Poi torna seria. «Non trovi però che sia un bel tipo?»

«Sarah…».

«Strano, sì, ma carino! Dai!»

«Mmh…».

«Lo so, lo so», dice fermandomi all’istante. «Ho una cotta segreta per William Eliot, ma lo dico tanto per dire», fa spallucce. Poi improvvisamente rabbrividisce e corre a infilarsi il suo pigiama.

«E che mi dici invece di lui, di William Eliot?», le chiedo.

Lei sbuffa dal lato del suo letto. «Non sono ancora riuscita a parlargli», confida. «A volte mi sembra così distante».

Penso a tutte le volte che Sarah lo rimbecca o lo prende in giro. Di occasioni ne avrebbe tante, ogni giorno, per parlargli, ma non si è mai decisa a farlo. Lei e William Eliot sono sempre stati molto uniti. Anche prima che io arrivassi in questa comunità loro si conoscevano già da tempo ed erano amici inseparabili. Poi però, crescendo, qualcosa per lei è cambiato e in cuor mio so che è così anche per lui.

Restiamo ancora un po’ in silenzio, pensando, Sarah distesa a pancia in giù che sospira ogni tanto, con i riccioli biondi che le ricadono da un lato del corpo, io appoggiata al cuscino rialzato con le gambe incrociate che scrivo sul mio diario.

Sotto al letto la presenza della scatola dei ricordi incombe come una sorta di richiamo insistente, mentre sul letto, in fondo ai piedi, sento netta e vivida la sua presenza che mi conforta.

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